Enrico Verra/ Rumore

Il fascino di Manila Paloma Bianca deriva dal suo essere un film di confine. Banalmente si potrebbe dire che nasce dall'incontro folgorante tra un regista e un attore, le cose in realtà sono un po' più complicate e stimolanti. Daniele Segre si è formato indagando, nel corso degli anni, tutte le situazioni sociali più scomode e marginali. Con i suoi antidocumentari ha raccontato la vita di travestiti, ultras, tossicodipendenti ed ex-internati di ospedali psichiatrici, evitando sempre la strada facile e veloce dello scoop giornalistico. Il suo cinema ha sempre cercato, da un lato, di avere uno sguardo personale, poetico e d'autore sulla realtà esplorata, dall'altro di rispettare una volontà politica, o forse ricerca fino ai limiti estremi della rottura con l'ambiente cultural-teatrale e a rischio della rottura con se stesso. Quando ha incontrato Daniele Segre era una specie di accattone della cultura, come lui stesso ama definirsi: disperato, ridotto in miseria, psichicamente prostrato e in cerca di lavoro. Ha raccontato a Segre la storia della sua vita e quel racconto è la materia viva a partire dalla quale i due hanno scritto, a quattro mani, il soggetto di Manila Paloma Bianca e hanno creato il personaggio di Carlo Carbone. Uno dei pochi personaggi tragici apparsi in questi anni sugli schermi del giovane cinema italiano, spesso e volentieri attento a seguire le strade del “carino”, attraverso i pascoli sicuri della commedia e della tradizione di matrice neorealista. Tutto si può dire di Manila Paloma Bianca, meno che sia un film “carino”. Furiosi movimenti di macchina raccontano il peregrinare di Carlo Carbone attraverso una Torino notturna e miserabile, esaltata dalla fotografia sgranata e volutamente povera di Luca Bigazzi, e si alternano a primi piani, macchina fissa alla Dreyer, rigoroso bianco e nero, che registrano Carlo Colnaghi alle prese con classici teatrali (Re Lear, Woyzeck). Il confine tra realtà e finzione sembra sempre più labile, il gioco degli specchi sembra infinito e proprio nel lavoro registico su questo spazio di frontiera si giocano i momenti migliori del film. La performance attoriale di Colnaghi finisce per oscurare tutti: dai coprotagonisti agli attori secondari. Le categorie di follia e normalità vengono messe in discussione da un personaggio che mina costantemente le sicurezze di chi cerca di avvicinarlo, penetrarlo, normalizzarlo. Solo il suono struggente di una tromba accompagnerà nel finale il solitario vagare di Carlo Carbone, in un'alba livida, prima del definitivo sberleffo al pubblico. Opera limite, Manila Paloma Bianca, anche in questo suo essere totalmente, talvolta troppo, incentrata su un unico personaggio: probabilmente un confine anche nel percorso registico di Daniele Segre.